Richiesto in materia, esprimo brevissimo parere in relazione alla vicenda di Tizio coltivatore diretto che – ad esito di una procedura esecutiva immobiliare promossa a danno di Caio proprietario del fondo – perda la disponibilità dell’agro a seguito dell’esercizio da parte dell’aggiudicatario Sempronio del diritto di recinzione.
Ai fini di una corretta qualificazione della fattispecie, é necessario precisare che, pur astenendosi dalla richiesta di acquisto della proprietà per usucapione, Tizio ha posseduto il fondo dall’anno 1985 senza alcun accordo con Caio ed anzi ignorandone l’identità.
Su tale presupposto, ritengo quindi di potere subito escludere l’applicabilità alla fattispecie delle Leggi 590/1965 e 203/1982 che – riconoscendo rispettivamente all’art. 8 il diritto di prelazione al coltivatore diretto “In caso di trasferimento a titolo oneroso o di concessione in enfiteusi di fondi concessi in affitto a coltivatori diretti, a mezzadria, a colonia parziaria, o a compartecipazione, esclusa quella stagionale….” ma sempre precisando che “La prelazione non è consentita nei casi di permuta, vendita forzata, …….” e facendo salva all’art. 4 la validità e l’efficacia nei confronti dei Terzi dei contratti agrari anche se verbali e non trascritti – riposano entrambe sulla conclusione (anche verbale) di un accordo, la cui mancanza indirizza l’esame del quesito su di un terreno extracontrattuale e verso rimedi diversi da quelli sinallagmatici.
L’esame della fattispecie induce poi ad escludere la tutela possessoria, se si considera che Sempronio ha provveduto a recintare il fondo e che quindi, laddove convenuto iure possessionis, Egli bene potrebbe eccepire la tutela petitoria, invocando un danno irreparabile (anche non grave) ravvisabile nella distruzione di ”...un’opera che, come risulterà (n.d.r. risulterebbe) dal successivo giudizio petitorio, aveva diritto di costruire.”((Corte Costituzionale 3 febbraio 1992, n°25.)).
Non ravvisandosi alcun rapporto contrattuale (nemmeno di natura gestoria ex art. 2028 del Codice Civile) né situazione di fatto tale da potere essere presidiata dalla tutela del possesso, ritengo che la fattispecie possa essere sussunta nel rapporto obbligatorio delineato dall’art. 936 del Codice Civile ((“Quando le piantagioni, costruzioni od opere sono state fatte da un terzo con suoi materiali, il proprietario del fondo ha diritto di ritenerle o di obbligare colui che le ha fatte a levarle.
Se il proprietario preferisce di ritenerle, deve pagare a sua scelta il valore dei materiali e il prezzo della mano d’opera oppure l’aumento di valore recato al fondo.
Se il proprietario del fondo domanda che siano tolte, esse devono togliersi a spese di colui che le ha fatte. Questi può inoltre essere condannato al risarcimento dei danni.
Il proprietario non può obbligare il terzo a togliere le piantagioni, costruzioni od opere, quando sono state fatte a sua scienza e senza opposizione o quando sono state fatte dal terzo in buona fede.
La rimozione non può essere domandata trascorsi sei mesi dal giorno in cui il proprietario ha avuto notizia dell’incorporazione.)), con la precisazione di cui infra e con la dovuta annotazione che il termine di sei mesi é di natura decadenziale ((Cass. civ. Sez. II, Sent., 31-08-2011, n. 17895.)) e che il suo decorso provoca automaticamente l’acquisto a titolo originario a favore del proprietario del fondo delle opere o dei manufatti ((Cass. civ. Sez. II, 04/11/2009, n. 23347, “A norma dell’art. 936 cod. civ., ove un terzo abbia eseguito opere con materiali propri su fondo altrui, il proprietario di quest’ultimo può scegliere se acquisirne la proprietà ovvero obbligare il terzo a rimuoverle; una volta che la rimozione non sia stata chiesta nel termine di sei mesi di cui all’art. 936, ultimo comma, cit., il proprietario acquista a titolo originario ed “ipso iure” la proprietà delle opere realizzate, in virtù del principio generale dell’accessione, poiché l’obbligazione al pagamento del valore dei materiali e del prezzo della mano d’opera ovvero dell’incremento di valore – che insorge a suo carico a norma dell’art. 936, secondo comma, cod. civ. – ha natura di indennizzo e non di prestazione sinallagmatica, e non costituisce quindi condizione per la pienezza dell’atto di acquisto.”))
La disciplina dell’accessione di cui all’art. 936 cod. civ. è applicabile quando le opere siano state realizzate da un soggetto che non abbia con il proprietario del fondo alcun rapporto giuridico – di natura reale o personale – che gli conferisca la facoltà di costruire sul suolo, mirando la norma a regolare la ricaduta patrimoniale di un’attività di costruzione su suolo altrui che coinvolga soggetti fra loro terzi. ((Da ultimo, Cassazione Civile 31 gennaio 2012, n° 1378.))
In un caso analogo, il Tribunale di Roma – nel disattendere l’eccezione di carenza di legittimazione passiva sollevata dal proprietario di un fondo (divenuto tale a seguito del decreto di trasferimento) – aveva affermato che l’obbligo di indennizzare colui che aveva eseguito opere sul bene gravava – anzichè sul proprietario al momento della accessione – sul successivo acquirente, poiché l’immobile era stato trasferito senza includere nel prezzo le opere realizzate dal terzo; nella specie, non era risultato provato che il prezzo versato dall’aggiudicatario avesse compreso anche il valore delle opere realizzate sul fondo dal terzo.
Con sentenza del maggio 2005, la Corte d’Appello riformava la decisione di primo grado, sul presupposto che, a tenore del decreto di trasferimento emesso nel procedimento esecutivo, l’immobile era stato trasferito nello stato di fatto e di diritto in cui essosi trovava con tutti gli annessi, le pertinenze e le accessioni (tale dovendo ritenersi le colture), cosicché il prezzo realizzato doveva comprendere necessariamente anche il valore delle accessioni.
Con provvedimento del dicembre 2011 ((Cassazione Civile 14 dicembre 2011, n°26841.)), la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza collegiale, ritenendo l’infondatezza della domanda del Terzo nei confronti dell’aggiudicatario, sul presupposto che il prezzo da questi versato dovesse considerarsi comprensivo anche delle accessioni esistenti sul fondo acquistato all’asta pubblica e ricordando che “...l’art. 2912 del Codice Civile prevede che il pignoramento si estenda agli accessori, alle pertinenze e ai frutti del bene pignorato, sicchè l’ordinanza di vendita comprende anche gli eventuali miglioramenti o addizioni, anche se non siano stati espressamente menzionati ….che passano in proprietà dell’acquirente”.
Ne conseguiva a giudizio della Corte l’infondatezza dell’azione d’ ingiustificato arricchimento sub specie art. 936 del Codice Civile nei confronti dell’aggiudicatario, con salvezza del diritto nei confronti del dante causa debitore esecutato.
La soluzione soddisfa dal punto di vista logico ma sicuramente non da quello pratico, se si considera la duplice circostanza che Caio potrebbe eccepire di non avere mai avuto notizia dell’accessione e che, molto verosimilmente, un’eventuale azione esecutiva nei suoi confronti avrebbe scarsa utilità, considerata per l’appunto l’incapienza economica per espropriazione forzata.
In termini assai prosaici, si può riassumere il concetto con l’affermazione che la “fetta” di arricchimento derivata al fondo é già stata corrisposta (ad esito di offerta all’incanto) da Caio a Sempronio (debitore esecutato) e che Tizio non ha di conseguenza alcuna azione nei confronti del primo, poiché la “ricaduta patrimoniale di un’attività di costruzione su suolo altrui che coinvolga soggetti fra loro terzi”((Si veda Cass.1378/2012 citata.)) é già stata regolata nell’ambito dell’asta ove l’aggiudicatario ha, per l’appunto, versato al debitore esecutato un quid pluris pari al valore delle accessioni.
La soluzione del quesito dipende quindi da un dato meramente tecnico: l’ammontare del prezzo pagato da Sempronio per l’aggiudicazione del fondo espropriato (e poi recintato).
Laddove questo – coeteribus paribus – sia pari o inferiore a quello congruo per enti fondiari di medesima consistenza, Tizio – in difetto di opposizione entro il semestre – potrà utilmente richiedere a Sempronio un indennizzo, al fine di vedersi riconosciuto il valore dei materiali e il prezzo della manodopera o il maggior valore, regolando in tal modo la ricaduta patrimoniale di un’attività di costruzione su suolo altrui che coinvolga soggetti fra loro terzi; diversamente, avrà solo azione nei confronti di Caio.
In conclusione – declinando le considerazioni che precedono al caso di specie (e ricordando quindi che all’aumento del valore del fondo agrario di proprietà di Sempronio é conseguito il periodico percepimento di frutti naturali da parte di Tizio), riterrei di sconsigliare di procedere ad un accertamento del valore delle accessioni (prodromico e funzionale all’inizio di una causa, a seconda delle diverse risultanze peritali, nei confronti di Sempronio o di Caio) in favore di un accordo con Sempronio che disciplini, per il futuro, la fattispecie e che attribuisca a Tizio la facoltà di opporre alla Controparte e ad eventuali Terzi e aventi causa i propri diritti e facoltà.
Se é vero come é vero infatti che “le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”((Art.1173 del Codice Civile)) – e se si prende pragmaticamente atto che, a fronte della coltivazione del fondo, Tizio a) non ha mai concluso con Caio accordi (contratti) nemmeno verbali b) né ha mai subito da parte di Caio né per iniziativa di Sempronio lesione di propri diritti soggettivi (fato illecito) c) né, come pare corretto, é destinatario – almeno da parte di Sempronio – di crediti per atto giuridico (accessione) – mi sembra opinione non priva di pregio evitare a Tizio un contenzioso che, a giudizio prognostico, si profila quanto meno oneroso dal punto di vista economico (in ragione del valore dell’attività da questi effettivamente prestata per la coltivazione del fondo) e scivoloso dal punto di vista giuridico (in ragione dell’arricchimento comunque imputabile a Tizio per la raccolta dei frutti).
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