Si pome la questione degli “alimenti” che un soggetto è giuridicamente obbligato a somministrare a favore di altro.

La questione giuridica, la cui soluzione consente di esprimere parere motivato, é relativa all’interpretazione di pochi articoli del codice civile (433-448); gli alimenti – da non confondere con le somme dovute da un Coniuge a favore dell’altro a seguito di un provvedimento di separazione o di divorzio – possono essere richiesti – nell’ordine – al coniuge, ai figli, ai genitori e, solo in loro mancanza, ai nonni; in difetto, possono essere richiesti ai generi e alle nuore, ai suoceri e, infine, anche alle sorelle, soltanto da chi versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio sostentamento.

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l’art. 433 del Codice Civile riposa su presupposti di solidarietà familiare

L’elencazione é tassativa e progressiva, nel senso che il primo soggetto in grado di adempiere esclude gli altri e ciò in ragione dell’intensità del vincolo familiare.

Desidero subito chiarire che l’obbligazione alimentare ha carattere residuale rispetto al più generale obbligo di mantenimento: ciò significa che, quand’anche il soggetto beneficiario abbia raggiunto l’autonomia economica e poi l’abbia perduta, il soggetto onerato non sarà più gravato dall’obbligo di mantenimento, bensì da quello di prestare gli alimenti.

Ciò, peraltro, non é sufficiente per dichiarare un soggetto tenuto alla prestazione alimentare, atteso che occorre verificare se sussistano i due presupposti fondamentali dello “stato di bisogno” e dell'”incapacità di provvedere autonomamente ai propri bisogni“.

Per quanto concerne il primo profilo, si deve affermare che versa in stato di bisogno chi non é in grado di far fronte dignitosamente alle esigenze fondamentali della propria vita, dovendosi intendere quest’ultime in relazione delle condizioni concrete e della posizione sociale del soggetto.

Sono considerate “esigenze primarie” il vitto, la casa di abitazione, il vestiario, l’assistenza medica non coperta dal Servizio Sanitario e quei beni e servizi che, nell’attuale società, integrano un minimo di vita dignitosa.

E’ utile ricordare che il diritto agli alimenti sussiste anche se il richiedente (c.d. “alimentando“) versi in stato di bisogono per propria colpa, poiché il principio di solidarietà familiare  – sul quale esso si fonda –  prescinde da ogni valutazione di ordine morale e pertanto lo stato di bisogno non cessa nel caso in cui costituisca conseguenza della condotta disordinata, dissoluta e addirittura riprorevole del soggetto, ferma, in questa ipotesi, solo la possibilità di una riduzione degli alimenti.

Preciso subito che, nell’ambito dell’esame della colpa e della responsabilità dell’alimentando, il principio si riferisce all’esame dei motivi che hanno causato l’indigenza economica e non alla causa dell’impossibilità di rimediarvi: in altre parole, la Legge riconosce all’alimentando il diritto di ottenere gli alimenti se egli abbia colposamente provocato la condizione di indigenza economica (es.: eccessive spese in vestiti, investimenti finanziari sbagliati, alcool, slot machine, etcc…) ma esclude tale facoltà se l’alimentando non provi il tentativo di procacciarsi autonomamente i mezzi per superare tale contesto.

Personalmente, ritengo di potere prosaicamente riassumere questo principio di diritto con la massima che “la Legge tutela i figli cattivi ma non i figli fannulloni” e ritornerò sul punto in sede di conclusioni.

Assorbente e decisivo ai fini del quesito é poi la valutazione dell’impossibilità di svolgere un’attività lavorativa idonea a procurare quanto necessario per vivere, con la precisazione che la prova del presupposto grava sull’alimentando.

E’ opinione radicata che l’essere in grado provvedere al proprio sostentamento significhi trovarsi nelle condizioni idonee al procacciamento (lecito) dei mezzi di sussistenza, il che si verifica nei confronti di chi, essendo capace di svolgere attività lavorativa retribuita, avrebbe concrete possibilità, in una soluzione economica di piena occupazione, di ricavare dall’attività medesima quanto é necessario per vivere.

Tale condizione va valutata in concreto e sussiste anche quando l’alimentando sia abile al lavoro ma non riesca a trovarlo, con la dovuta precisazione che deve tenersi conto dell’età, delle condizioni di salute e delle attitudini del soggetto: non la ricerca di qualsiasi lavoro pertanto bensì quella confacente alle condizioni fisiche e psichiche del soggetto e secondo anche le sue condizioni sociali.

La giurisprudenza é in merito constante nel respingere la domanda di alimenti nei confronti di colui che non prova la propria invalidità al lavoro per incapacità fisica oppure non dimostri l’impossibilità, per causa a lui non imputabile, di trovare un’occupazione confacente alle proprie attitudini e condizioni sociali.

Giudico per il momento superfluo affrontare la questione relativa alle condizioni economiche dell’obbligato e della misura degli alimenti, poiché ritengo di dovere incentrare questa prima analisi sui presupposti della domanda e credo che sia invece interessante valutare il “modo di somministrazione degli alimenti”.

In merito, l’art. 443 recita che”chi deve somministrare gli alimenti ha la scelta di adempiere questa obbligazione o mediante un assegno alimentare corrisposto in periodi anticipati, o accogliendo e mantenendo nella propria casa colui che vi ha diritto. L’autorità giudiziaria può però, secondo le circostanze, determinare il modo di somministrazione. (Omissis)”

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l’onerato può adempiere all’obbligo alimentare accogliendo l’alimentando nel proprio nucleo familiare

La scelta, quindi, é rimessa alla volontà dell’obbligato, salvo il vaglio dell’Autorità Giudiziaria, con l’annotazione che, secondo autorevole opinione, la scelta della convivenza non possa essere imposta pena il sorgere di problemi di compatibilità con la tutela costituzionale della libertà personale.

Il Giudice, pertanto, in relazione ai modi di somministrazione degli alimenti (o anche nel caso in cui l’obbligato non effettui la scelta in ordine al modo di somministrazione), interviene in caso di contrasto tra obbligato e alimentando.

Si afferma in merito che, nell’esercizio del potere discrezionale, Il Giudice debba tenere in prevalente considerazione l’interesse del richiedente.

A questo punto, é utile descrivere il cotesto familiare nel quale andrebbe, per ipotesi, a inserirsi una ragazza di 24 anni, al fine di valutare se possa considerarsi dignitosa l’imposizione di convivere con uno sconosciuto e con due minori (la famiglia di origine che si è creata a seguito di nuove nozze della madre) a una ragazza di 24 anni, oramai svezzata dal tetto materno, abituata a mantenersi, con esperienza di convivenza e con propria sfera di interessi.

Al fine di comprendere quale sarebbe la decisione del Giudice a fronte dell’offerta della Madre – in difetto di gradimento da parte della figlia – occorre valutare se essa possa essere considerata, alla stregua della giurisprudenza e quindi secondo la prassi dei Tribunali italiani, legittima modalità di adempimento dell’obbligo alimentare.

Pur ammettendo che la figlia non abbia sostanze per mantenersi e che non riesca a trovare un lavoro senza colpa (risultato di eventuale istruzione documentale), le domande alle quali occorre dare una risposta sono: ” la madre può convincere il Giudice a non dare alla figlia del denaro accogliendola in casa?“; “E’ legittimo che la madre possa scegliere di adempiere all’obbligo alimentare offrendosi di accogliere la figlia di 24 anni in casa e di mantenerla nell’ambito del proprio contesto familiare?

Mi corre in merito commentare un’interessante sentenza del Tribunale Bari (n°2120 del 2 agosto 2006) relativa alla domanda proposta da
una figlia, al tempo ventiquattrenne, nubile, non convivente più con i genitori dal precedente anno 1997, dapprima per effetto di disposizioni di allontanamento del Giudice minorile (affidamento ai Servizi Sociali) e, poi, al momento del raggiungimento della maggiore età, per propria libera determinazione.

Si legge, nella motivazione, che l’accoglimento della domanda formulata dalla figlia si fonda, principalmente, sulla prova della titolarità di un titolo di scuola superiore (maturità classica) e del mancato godimento di emolumenti al quale si accompagna, invece, la titolarità in capo al genitore di un reddito da lavoro dipendente e di provenienza da vari fabbricati.

E’ interessante notare come l’onere probatorio gravante sulla figlia sia stato in parte alleviato dall’ammissione dei genitori che hanno offerto di adempiere agli alimenti in uno dei due modi tipici previsti dall’art. 443 c.c., ossia accogliendo e mantenendo nella propria casa l’alimentanda; ciò ha indotto il Giudice a ritenere evidente l’ammissione dello stato di bisogno della figlia, necessariamente presupposto all’adempimento offerto.

Ritengo a questo punto necessario, ai fini di rispondere alle domande di cui sopra, che il Giudice del Tribunale di Bari ha ritenuto, di fatto, inattuabile la modalità di accoglimento in casa e ha quindi condannato i genitori a corrispondere mensilmente alla figlia una somma di denaro su di un duplice ordine di ragioni:

– motivi originari: il rapporto fra le parti aveva conosciuto precedenti dì incomprensione così grave da condurre al rimedio, in un certo senso, estremo dell’allontanamento della figlia dalla residenza genitoriale in forza di un provvedimento del Tribunale per i Minorenni, sicché appare al Giudice irragionevole pensare che la convivenza, ormai da lungo tempo interrotta, possa riprendere serenamente, tanto meno a fronte di un persistente atteggiamento di rifiuto della figlia;

– motivo sopravvenuto: la separazione consensuale tra i coniugi.

 Devo però precisare che il Giudice ha condannato agli alimenti soltanto il Padre, escludendo il pari obbligo della madre per effetto della mancanza in capo a quest’ultima di redditi; evidenzio che il Giudice ha azzerato il contributo economico astrattamente gravante sulla Madre a favore della figlia dall’esame della dichiarazione dei redditi della Madre stessa prodotta in seno alla procedura di separazione consensuale e dall’assegno di mantenimento che il marito si era obbligato a corrisponderle, nell’evidente presupposto della carenza di adeguati mezzi propri della beneficiaria.

Conclusione. In conclusione, laddove la figlia (ma anche un qualsiasi soggetto) intenda chiedere gli “alimenti” al genitore (o a qualsiasi soggetto indicato progressivamente e tassativamente nell’art. 433 c.c.) dovrà provare documentalmente:

1) per quanto riguarda lo stato di bisogno:

●          di avere ricevuto, ad esempio, la minaccia di sfratto per il mancato pagamento del canone di locazione;

●          di avere comunque ricevuto solleciti di pagamento da parte di Enti di somministrazione di prestazioni periodiche (enel, aspem, etc…);

●          dell’estratto conto, da cui si evinca una condizione finanziaria di incapienza economica;

●          di avere contratto finanziamenti per l’adempimento di debiti relativi all’acquisto di beni di prima necessità (es.: acquisto di mobili, pentole, materassi);

●          della polizza relativa all’assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli;

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gli alimenti devono essere somministrati nello stretto ambito di quanto necessario ad una vita libera e dignitosa

2) per quanto riguarda il tentativo di sopperire autonomamente alla situazione di bisogno:

●          di essere concretamente alla ricerca di un lavoro, mediante esibizione della domanda di iscrizione ad una delle Agenzie del Lavoro;

dovendo precisare che l’elencazione é meramente esemplificativa e non tassativa e che, relativamente al punto 1), non é indispensabile produrre tutta la documentazione indicata ma che la domanda di ottenimento degli alimenti ha tante più possibilità di essere accolta quanto più sia istruita dal punto di vista documentale.