SOMMARIO: 1. L’OGGETTO DELL’ATTIVITÀ DELL’AVVOCATO – 2. QUALIFICAZIONE GIURIDICA – 3. ONERE DELLA PROVA – 4. DANNO RISARCIBILE – 5. CONCLUSIONI.
___________
1) L’oggetto dell’attività dell’avvocato. L’avvocato é il professionista che, rispettivamente in ambito stragiudiziale e giudiziale, svolge a favore del proprio Cliente attività giuridica di consulenza nonché di rappresentanza e di assistenza.
L’attività di consulenza consiste nel consigliare il Cliente nell’ambito di un dubbio o di un quesito e – laddove non si esaurisca nel semplice chiarimento (verbale o scritto) – può anche assumere il carattere dell’assistenza stragiudiziale (redazione di contratti, statuti, diffide, denunce, regolamenti, partecipazione ad assemblee, etc…) da non confondere con l’assistenza giudiziale.
Senza volere entrare nel merito delle dotte dissertazioni degli Autori, la rappresentanza giudiziale é invece l’attività con la quale, a seguito del conferimento di una procura, l’avvocato – nell’ambito del Giudizio – esercita il ministero conferito dal Cliente comparendo davanti al Giudice in nome e per conto del Cliente, poiché questi – ad eccezione delle cause di valore inferiore a € 1.000,00 – é incapace (legale) di esercitare autonomamente i poteri necessari alla tutela dei propri diritti.
L’assistenza giudiziale (meglio conosciuta come difesa), é poi l’attività con la quale – in nome proprio ma a favore della Parte – l’avvocato parla, scrive, svolge argomenti difensivi, interpreta (e stressa) la Legge a favore del proprio Cliente.
Mi permetto di osservare che, secondo l’insegnamento dei Maestri, un buon avvocato é l’avvocato di parte ma non l’avvocato partigiano..
Orbene, se si considera che prassi autorevole ((Cass. civ. Sez. Unite, 03/12/2008, n. 28658)) ha riconosciuto che l’attività di rappresentanza e di assistenza sono riservate agli avvocati solo nei limiti della rappresentanza e dell’assistenza giudiziale (e, comunque, per le attività in diretta collaborazione con il giudice nell’ambito del processo) laddove – al di fuori di tali limiti – l’attività di assistenza e di consulenza legale può essere svolta anche da chi non sia iscritto all’Albo – se ne può desumere che l’esercente attività legale non iscritto all’Albo (senza, quindi, essere un avvocato) svolge più precisamente attività di consulenza.
Ferma dunque, a (s)favore del Cliente, la facoltà di farsi consigliare (in sede stragiudiziale) da chiunque ((E’ indubbio che anche l’attività di consulenza debba ispirarsi ai criteri di massima prudenza ed appare dunque discutibile la pronuncia delle Sezioni Unite che ne consentono l’esercizio a chi non abbia conseguito l’iscrizione all’Albo che, almeno in via presuntiva, costituisce un presupposto di preparazione e competenza professionale.
Si pensi alle c.d. “cause perse” (ammesso e non concesso che ne esistano) per le quali -già nella fase di primo esame e studio – l’attività del difensore può essere preziosa, al fine di limitare o di escludere il pregiudizio insito nella posizione del cliente, quanto meno in vista della coltivazione di una soluzione transattiva, la cui utilità ed opportunità può essere consapevolmente valutata solo da chi conosca la Fase Giudiziale.
Si veda, circa gli obblighi del difensore nell’ambito di una causa (presuntivamente) persa, Cass. Sez. III, 2 luglio 2010, n. 15717.)), allo stato dell’arte, per cause di valore superiore a € 1.000,00, il cittadino che voglia tutelare le proprie ragioni davanti al Giudice dovrà rivolgersi ad un avvocato al quale conferire il ministero di rappresentanza e di assistenza.
2) Qualificazione giuridica. A seguito del conferimento dell’incarico, l’avvocato si obbliga (verso un corrispettivo e senza vincolo di subordinazione) a svolgere a favore del proprio Cliente attività di consulenza ovvero di rappresentanza ed assistenza giudiziale.
L’attività del legale – nelle tre forme di cui sopra – consiste in una prestazione intellettuale che ha ad oggetto un’obbligazione di mezzi ((Parte della Dottrina e della Giurisprudenza supera la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato sull’assunto che il risultato – inteso come momento conclusivo della prestazione dell’avvocato – e’ dovuto in ogni obbligazione e il suo raggiungimento e’ subordinato alla predisposizione di mezzi utili per conseguirlo.
L’avvocato, quindi, sarebbe tenuto a raggiungere il fine ultimo voluto dal cliente svolgendo una serie di prestazioni, comportamenti e atti conformi alle regole dell’arte e alle norme di correttezza; il risultato si identificherebbe, in ultima analisi, non nell’integrale soddisfazione delle ragioni del cliente ma nell’attuazione di tutte quelle attività, anche di natura discrezionale, che si rendono necessarie e opportune affinché – secondo un giudizio di scienza e di coscienza – l’opera possa realizzarsi)), il cui adempimento si esaurisce nel semplice compimento delle attività necessarie in relazione alle singole circostanze del caso, a prescindere dal conseguimento del risultato auspicato dal Cliente.
La Giurisprudenza é granitica nel ritenere che la responsabilità professionale dell’avvocato – la cui obbligazione é per l’appunto di mezzi non di risultato – presuppone la violazione del dovere di diligenza professionale media, da commisurare alla natura dell’attività esercitata.
Dunque, se l’avvocato non ha l’obbligo di garantire il risultato e se, di conseguenza, la soccombenza del Cliente non costituisce automaticamente presupposto per una condanna al risarcimento dei danni, il professionista vi sarà invece tenuto laddove abbia violato (anche per colpa lieve) i propri doveri di diligenza (competenza), di prudenza e di perizia nell’ambito di un mandato di complessità anche alta, laddove risponderà solo per colpa grave nell’ambito di errori relativi alla valutazione e alla risoluzione di questioni giuridiche (sostanziali e processuali) particolarmente complesse o difficili.
La Giurisprudenza riconosce quindi la piena sussistenza della responsabilità professionale dell’avvocato – al di là, dunque, delle limitazioni di cui all’art. 2236 c.c. – allorquando, nell’ambito di un caso non implicante la risoluzione di questioni giuridiche di particolare difficoltà, il professionista non abbia osservato quelle regole che costituiscono il proprio necessario corredo professionale che, per comune consenso e consolidata prassi, siano acquisite alla scienza del Diritto ed alla pratica del settore e siano quindi funzionali ad attività di carattere ordinario, non caratterizzate da alcuna particolare complessità.
E’ stato coerentemente osservato ((Cassazione civile, sez. III 12/04/2011 n. 8312)) che rientra nell’ambito delle competenze specifiche dell’attività professionale e dei doveri di diligenza – la cui violazione é presupposto di colpa – la consapevolezza che la mancata prova degli elementi costitutivi della domanda espone il cliente alla soccombenza.
L’avvocato quindi ha un obbligo giuridico di protezione e di conservazione della sfera giuridica del proprio assistito che deve essere guidato e indirizzato dal professionista che gli deve fornire le necessarie informazioni ((E’ noto che ’avvocato ha l’obbligo di difendere gli interessi del Cliente nel miglior modo possibile ed è destinatario dell’obbligo di comunicare alla parte assistita la necessità del compimento di determinanti atti, al fine di evitare, tra gli altri, effetti pregiudizievoli relativamente agli incarichi in corso di trattazione.
Al momento del conferimento dell’incarico, l’avvocato, previa adeguata informazione da parte del Cliente sulle circostanze di fatto inerenti la questione in esame, deve – secondo scienza (Legge, Dottrina e Prassi) e coscienza (possibilità di perseguire l’interesse del Cliente al di fuori del ricorso all’Autorità Giudiziaria) – consigliare il proprio Assistito sull’opportunità/necessità di promuovere un’azione giudiziaria ovvero di astenersene, a seconda che, a un giudizio prognostico, l’esito della causa gli appaia rispettivamente favorevole o infausto.
Laddove l’avvocato esprima parere favorevole, Egli riceve dal Cliente il mandato “ad litem”.
Successivamente all’instaurazione del Giudizio, l’avvocato deve altresì comunicare – senza ritardo – al proprio Cliente ogni notizia utile alla protezione dei suoi interessi e, tra le informazioni che il professionista deve riportare, rientrano – naturalmente – le proprie osservazioni e valutazioni circa il contenuto degli atti che la Controparte deposita a propria difesa.
Questi atti contengono elementi – di fatto e di diritto – nuovi e diversi rispetto a quelli prospettati dalla Parte che ha promosso il Giudizio.
L’avvocato, dunque, ha l’obbligo di difendere la Parte e, conseguentemente, di prospettare al Giudice una “rappresentazione di Parte”.
L’avvocato, come qualsiasi professionista, ha d’altra parte l’obbligo di criticare, vagliare, sottoporre continuamente ad esame il proprio operato, al fine di verificare se la tesi che ha introdotto nel Giudizio sia o meno, alla luce della difesa avversaria, giuridicamente fondata.
Può accadere che l’avvocato, a seguito di una critica onesta del proprio lavoro, riscontri che, dalla lettura degli atti depositati da Controparte, si profili l’eventualità che la domanda del proprio Cliente venga respinta.
E’ frequente che l’avvocato, seppure abbia consigliato al proprio Cliente di promuovere una causa giudiziaria, si accorga, dall’esame delle difese avversarie, che emerge la probabilità – o, quanto meno, la possibilità – che esse vengano giudicate dal Magistrato di pregio giuridico maggiore rispetto a quello sotteso alle difese che Egli ha introdotto nell’interesse del proprio Cliente.
Ciò può accadere in due casi:
a) quando vi è contrasto giurisprudenziale sulla questione dedotta in giudizio (la Corte di Cassazione ha emesso sentenze discordanti sul medesimo caso);
b) quando la fattispecie è chiara e l’avvocato non ha prestato adeguata attenzione all’indirizzo giurisprudenziale prevalente o all’interpretazione di una norma giuridica.
Con cautela, accertata la non manifesta infondatezza della tesi avversaria nel caso a) (probabilità che la tesi avversaria venga preferita alla propria) l’avvocato dovrà domandarsi quale possa essere l’esito della domanda del proprio Cliente e, ragionevolmente, potrà anche decidere di proseguire nel giudizio e “rischiare” di “perdere il processo”.
Con cautela, accertata la possibile fondatezza della tesi avversaria (ovvero la concreta possibilità che essa sia giudicata fondata dal Magistrato), l’avvocato potrà 1) perseverare nel giudizio, con il rischio di soccombenza e condanna del proprio Cliente al pagamento delle spese legali; 2) consigliare al proprio Cliente di rinunciare alla domanda, al fine di “limitare i danni”.
E’ accaduto che, pur avendo compreso la fondatezza delle ragioni della Controparte, il Professionista abbia evitato di comunicare la circostanza al proprio Cliente e, al momento del deposito della sentenza, abbia giustificato la soccombenza adducendo l’impreparazione del Magistrato o abbia sottoposto al proprio Assistito, con linguaggio tratto dal più oscuro “legalese”, inestricabili motivazioni di ardua decifrazione.
Per parte mia, ritengo che, riconosciuta la concreta possibilità che la domanda del Cliente sia respinta, per l’avvocato non sussista altra opzione che 1) informare il Cliente della possibilità dell’esito infausto della causa, anteponendo dunque l’interesse dell’Assistito al proprio orgoglio; 2) escogitare, nell’interesse del Cliente, la soluzione migliore per limitare le conseguenze di danno derivanti dalla fragilità della propria difesa)), anche per consentirgli di valutare i rischi insiti nell’iniziativa giudiziale ((Si veda, sul tema, Cass. civ. Sez. 3, 30 luglio 2004 n. 14597; Cass. civ. Sez. 3, 20 novembre 2009 n. 24544.))
Una volta che sia accertata la colpa dell’avvocato (secondo il principio non poteva/non doveva non sapere/doveva sapere), ai fini dell’obbligo al risarcimento del danno, é d’altra parte necessario accertare – sulla base di criteri necessariamente probabilistici – che, senza l’omissione, il risultato auspicato dal Cliente sarebbe stato conseguito.
Di talché, laddove sia accertato che si sarebbe comunque verificata soccombenza, l’avvocato andrà esente da qualsiasi condanna di risarcimento del danno (potendo eventualmente essere sanzionato in sede disciplinare).
3) Onere della prova. Con generoso richiamo a precedenti giurisprudenziali é stato superato ((Cass. civ. Sez. III, 06-02-1998, n. 1286.)) l’assioma secondo cui – laddove l’errore o l’omissione del difensore aveva impedito l’esame del merito o aveva portato ad una pronuncia di segno negativo – non sarebbe stato mai possibile determinare quale sarebbe stato l’esito finale di una causa.
In tema di responsabilità contrattuale, le Sezioni Unite della Cassazione ((Cass. Civile, Sezioni Unite, 30 ottobre 2001 n° n°13533.)), hanno risolto la questione se l’incertezza circa la prova dell’esatto adempimento da parte del debitore rientri fra i rischi della prestazione e hanno risolto la questione intervenendo sulla distribuzione dei carichi probatori, nel senso di ampliare il rischio della prestazione fino al punto da ricomprendervi anche il rischio della prova della sua puntuale esecuzione.
La prassi successiva si é uniformata – con costante convinzione – al principio secondo cui il creditore della prestazione di un facere é esonerato dall’onere di provare il fatto negativo dell’inadempimento, dovendo piuttosto il debitore convenuto fornire la prova del fatto positivo dell’avvenuto adempimento, in ossequio al principio di riferibilità e di vicinanza della prova, in virtù del quale l’onere istruttorio va sempre ripartito tenendo conto, in concreto, della possibilità per l’uno o per l’altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere di azione.
Sulla base di questo principio, non convince quindi la pronuncia ((Cass. civ. Sez. II, 11/08/2005, n. 16846.)) della Sezione Semplice secondo cui l’affermazione della responsabilità dell’avvocato implica l’indagine, positivamente svolta sulla base degli elementi di prova che il cliente ha l’onere di fornire, circa il sicuro e chiaro fondamento dell’azione che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente coltivata, e, in definitiva, la certezza morale che gli effetti di una diversa sua attività sarebbero stati più vantaggiosi per il cliente.
Nel particolare contesto tecnico-giuridico del contendere, sarebbe stato infatti più equo attribuire al Cliente l’onere di provare il danno, riservando invece all’avvocato (su cui deve gravare il rischio della prova circa la puntuale esecuzione del mandato) l’onere di provare il proprio esatto adempimento.
Se, pertanto, é condivisibile che il cliente sia tenuto a provare di avere sofferto un danno, non pare convincente che egli sia onerato anche della prova che questo è stato causato dall’insufficiente o inadeguata attività del professionista (prova del nesso di causalità tra evento e danno) ((Cass. civ. Sez. II, 27/05/2009, n. 12354 che rigetta, App. Roma, 22/04/2004.)
Se é vero come é vero che l’avvocato esercita la propria opera professionalmente ed é quindi tenuto ad una diligenza qualificata ((Anche se Cass. civ. Sez. II, 23-04-2002, n. 5928 e, tra le tante Cass., n. 8033/93, n. 3879/96, n. 6812/98, parlano – con indulgenza per la classe forense – di diligenza del “buon padre di famiglia.”)) ne deve necessariamente derivare un regime probatorio particolarmente severo (l’incombenza a suo carico del rischio di non riuscire a fornire la prova liberatoria della’dempimneto), a pena di gravare il cliente di una probatio diabolica. ((Di “probatio diabolica”scrive anche DARIO COVUCCI, “La responsabilità professionale dell’avvocato: l’evoluzione continua” in DANNO E RESPONSABILITA’, 7/2011, pagg.742-752.)).
Ben si comprende allora perché altra Sezione della Corte di Cassazione ((Cass. civ. Sez. III, 12/04/2011, n. 8312.)) abbia deciso che “ In tema di responsabilità professionale dell’avvocato la mancata indicazione al giudice delle prove indispensabili per l’accoglimento della domanda costituisce, di per sé, manifestazione di negligenza del difensore (n.d.r. senza la necessità che il clienti dimostri che, se le prove fossero state ostentate, la causa avrebbe avuto esito diverso) salvo che egli dimostri di non aver potuto adempiere per fatto a lui non imputabile o di avere svolto tutte le attività che, nella particolare contingenza, gli potevano essere ragionevolmente richieste, tenuto conto, in ogni caso, che rientra nei suoi doveri di diligenza professionale non solo la consapevolezza che la mancata prova degli elementi costitutivi della domanda espone il cliente alla soccombenza…” poiché “… il cliente, normalmente, non è in grado di valutare regole e tempi del processo, né gli elementi che debbano essere sottoposti alla cognizione del giudice, così da rendere necessario che egli, per l’appunto, sia indirizzato e guidato dal difensore, il quale deve fornirgli tutte le informazioni necessarie, pure al fine di valutare i rischi insiti nell’iniziativa giudiziale.”
Nella fattispecie, i giudici ermellini cassarono la sentenza di merito che aveva (sorprendentemente) escluso la responsabilità professionale del difensore il quale, in un giudizio risarcitorio a seguito di sinistro stradale, aveva chiesto fissarsi l’udienza di precisazione delle conclusioni senza aver dato corso alle prove sulle modalità del fatto, sulla responsabilità e sull’entità dei danni – reputando, erroneamente, che gravasse sul cliente l’onere di provare di aver fornito al difensore la lista testimoniale, là dove, invece, era onere di quest’ultimo dimostrare di aver sollecitato adeguatamente il cliente a siffatta comunicazione.
Una volta accertata l’indulgenza radicata nel principio consolidato secondo cui, in materia di responsabilità del professionista, il cliente è tenuto a provare non solo di aver sofferto un danno ma anche che questo è stato causato dalla insufficiente o inadeguata attività del professionista e cioè dalla difettosa prestazione professionale, ne consegue il corollario che il cliente non può limitarsi a dedurre l’astratta possibilità della riforma in appello di tale pronuncia in senso a lui favorevole ma deve dimostrare l’erroneità della pronuncia in questione oppure produrre nuovi documenti o altri mezzi di prova idonei a fornire la ragionevole certezza che il gravame, se proposto, sarebbe stato accolto.
4) Danno risarcibile. Ferma la pacifica configurabilità del danno emergente (pagamento delle spese legali), la Giurisprudenza di Legittimità riconosce a favore del Cliente il risarcimento del danno “da perdita di chance” di ottenere un effetto vantaggioso dalla diligente esecuzione dell’incarico.
Secondo la Prassi, la liquidazione del danno deve essere effettuata assumendo come parametro di valutazione il vantaggio economico complessivamente realizzabile dal conseguimento del petitum mediato (bene rivendicato nella domanda), diminuito di un coefficiente proporzionato al grado di possibilità di conseguirlo, con facoltà dell’applicazione del criterio equitativo di cui all’art. 1126 del Codice Civile.
5) Conclusioni. Ritengo che – ferma la fondatezza della sussunzione dell’obbligazione dell’avvocato tra quelle di mezzi – il criterio di distribuzione dei carichi probatori formulato dalla Corte di Cassazione (in deroga alla disciplina contrattuale comune come riassunta da Cassazione 13533/2001) aggravi ingiustificatamente la posizione del Cliente a vantaggio di quella dell’avvocato che, in qualità di professionista, é per definizione più prossimo e più vicino agli elementi di fattispecie che gli sono riferibili (essendo, prosaicamente, suo pane quotidiano) e che, di conseguenza, ha meno difficoltà a distinguerne gli elementi di imputabilità.
Il quisque de populo sarà invece gravato della ricostruzione, sotto il profilo eziologico, dei presupposti della c.d. triplice causalità: in un primo momento, dovrà dimostrare l’inadempienza dell’avvocato, poi la sussistenza del nesso causale tra il comportamento inadempiente del patrono e il danno per poi fornire elementi convincenti che il danno é conseguenza immediata e diretta del predetto inadempimento, laddove il professionista (cui la Giurisprudenza, peraltro, richiede la diligenza del buon padre di famiglia in luogo di quella qualificata) ben potrà opporre l’eccezione di cui all’art 2236 del Codice Civile, laddove la questione dibattuta appaia controversa.
In conclusione, ritengo di potere giudicare il criterio d’ imputazione dell’onere probatorio adottato dalla Giurisprudenza ratione materiae stravagante rispetto all’ordinario regime contrattuale (quasi si trattasse di colpa aquiliana) ma, da avvocato – senza alcuna ipocrisia – non posso che accoglierne l’applicazione con indulgenza, in ragione dei (anche furiosi) contrasti giurisprudenziali che spesso animano questioni giuridiche di (presunta) semplice soluzione.
Commenti recenti